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Il dj che ha hackerato il rock e anche un po’ la mia mente: un ricordo affettuoso di Andrew Weatherall

È morto ieri, a sorpresa, a soli 56 anni, Andrew Weatherall. Volendo, metto la puntina sul disco del necrologio e aggiungo: dj, produttore, musicista, critico musicale, agitatore culturale. 
Può darsi, se non siete un minimo appassionati di musica, che il suo nome non vi suoni familiare. È normale: quello che sarà ricordato negli anni come una delle figure più grandi di sempre della musica elettronica e della club culture è sempre stato un’anti-star, che non ha mai curato troppo la propria immagine pubblica. 

È altrettanto normale che, cliccando su uno dei tanti link di questo post, ritroviate brani che, negli anni Novanta, vi hanno fatto impazzire, vi hanno salvato una serata, vi hanno esaltato, vi hanno fatto fare l’alba, vi hanno fatto incuriosire o, mentalmente, vi hanno portato altrove. 

Mettiamola così: se gli anni Novanta sono ricordati come uno dei decenni con la musica dance/elettronica migliore di sempre, il merito è in buona parte di Andrew Weatherall, del suo eclettismo e della sua capacità di unire le persone. 

Questo è un post chilometrico su una delle figure che hanno inciso maggiormente nell’immaginario sonoro degli ultimi decenni, oltre che da sempre uno dei miei punti di riferimento culturali (inizialmente avevo scritto “eroi”).
È pensato prevalentemente per chi non conosce bene Andrew Weatherall e la sua arte (ecco perché è pieno di link a YouTube), quindi se siete suoi fan eventualmente scorrete verso il fondo, dove cerco di fare qualche considerazione sulla sua portata artistica, così vi perdete il pippone storico iniziale.
In qualsiasi caso, prendetevi del tempo, perché ho molte cose da dire.


DALLE FANZINE AL DANCEFLOOR

Di norma i geni musicali sono predestinati, enfant prodige, musicofili monomaniacali.
Andrew Weatherall no, anzi nella vita voleva fare altro, tipo il giornalista o il manager di una casa discografica. E infatti, poco più che ventenne, si fa notare perché fonda una fanzine cartacea – Boy’s Own – in cui si parla di tutto. Siamo alla fine degli anni Ottanta e in redazione c’è un gruppetto di amici che, come in tutte le fanzine che si rispettino, fanno quello che gli pare: recensiscono concerti e dischi, scrivono di calcio e politica e iniziano a parlare dei primi rave, fenomeno da cui, col tempo si fanno letteralmente assorbire.

Risultato: Boy’s Own, da cazzeggio di un gruppo di amici che amavano il clubbing, diventa la testata di riferimento e voce critica del mondo dei rave in pieno boom e del suono elettronico emergente, ma lo fa parlando anche d’altro: moda, arte e politica e tanto calcio. Su tutto, come collante trasversale e come ispirazione, sottofondo e prodotto, la musica. 

Dall’occuparsi di musica al suonarla a qualche party, poi a serate sempre più grandi e di successo, il passo è breve. Dalla redazione iniziale di Boy’s Own di fatto negli anni escono alcuni tra i dj più importanti di sempre nel Regno Unito, letteralmente facendo la gavetta di festa in festa, di serata in serata. 


L’INDIE ROCK SUL LETTINO DELLO PSICANALISTA

È un periodo strano, per la musica britannica. Siamo alla fine degli anni Ottanta: la acid house, che era stata inventata qualche anno prima a Chicago, arriva in UK e, contrariamente a ciò che era accaduto negli Stati Uniti, spacca. 

È il periodo della cosiddetta seconda Summer Of Love: l’epoca dei rave in cui nasce la moderna club culture, al suono di una fusione perfetta tra musica elettronica, dance e psichedelia. Come tutti i fenomeni musicali, ci mette pochissimo a trasformarsi in un fenomeno culturale e di costume (così rilevante che l’allora governo Tory, pochi anni dopo, si sentirà in dovere di fare una legge anti-rave, il cosiddetto Criminal Justice Act) e a raggiungere, seppure tangenzialmente il mainstream.

In questo scenario chi non se la passa benissimo è l’indie rock britannico, oscurato nei suoi anni migliori dalla crescita travolgente del fenomeno rave. Certo, nel sound di molti gruppi rock britannici di quegli anni, su tutti Blur e Stone Roses, si fanno notare tracce di attenzione ai nuovi ritmi: spuntano i primi campionamenti, sempre più pezzi uniscono batteria tradizionale e drum machine, il tradizionale impianto chitarristico delle canzoni lascia spazio a inserti groovy, ecc. 
Però sono solo segnali e in molti casi puri e semplici adeguamenti alla moda sonora, voluti più dalle case discografiche che dagli artisti stessi. 

Chi propizia più di tutti l’incontro e poi l’abbattimento delle barriere tra rock e club music è proprio Andrew Weatherall, nel ruolo non più solo di dj, ma anche di produttore. Ed è un fatto epocale.

Tutto avviene per step. All’inizio Weatherall fa tutto da solo, con un po’ di artigianato: prende un pezzo indie, ne campiona il riff e lo trasforma in un pezzo dance. È così che nasce “Raise”, primo singolo dei Bocca Juniors, progetto dietro cui si nascondevano nientemeno che Weatherall stesso, Terry Farley e Pete Heller: un riff di piano rubato a un remix dei Thrashing Doves (dignitoso gruppo rock londinese la cui carriera colò a picco dopo che Margaret Thatcher parlò bene di un loro videoclip, rendendoli istantaneamente uncool), una base di drum machine, una vocalist e il gioco è fatto. Il pezzo è un successo immediato, non tanto in classifica, quanto sui dancefloor tanto a Londra quanto a Ibiza, dove si sta perfezionando l’identità del sound “balearico”. 

Il secondo step è più semplice: sono i gruppi indie stessi a farsi remixare i brani da Weatherall e soci, alla ricerca di un suono che vada oltre il rock e non sia solamente pura dance. Il risultato, in gran parte dei casi, è straordinario e coinvolge alcuni tra i gruppi più interessanti e di successo dell’epoca. 

Se avete l’età giusta, probabilmente avete ballato il suo remix di “Soon” dei My Bloody Valentine: shoegazer irlandesi, gente che non ti immagineresti mai su un dancefloor se non a fare da tappezzeria. È un pezzo talmente perfetto da meritare il titolo di “miglior remix di sempre” da parte di un sondaggio dell’NME. 

Oppure avete ballato il remix di “Halleluja” degli Happy Mondays, inguaribili festaioli nati, chimicamente agitati, tutto tranne che shoegazer, ma a cui mancava una spintarella per abbracciare definitivamente la dance. Ecco, lo spingitore di Happy Mondays è proprio Weatherall.

Nel giro di pochi anni, buona parte delle realtà indie, inclusa gente del calibro di Saint Etienne e New Order, si regalano un remix di Andrew Weatherall e spesso poco dopo cambiano, si aprono a nuove sonorità.

Sembra quasi che il buon Andy metta il rock britannico sul lettino dello psicanalista e lo aiuti a scoprire i limiti sonori e compositivi che si autoimpone, fino a liberarlo in modo definitivo da totem, tabù e menate varie.


SCREAMADELICA – IL ROCK LIBERATO DAL ROCK

L’esempio più brillante del lavoro di Weatherall come “liberatore” dei gruppi indie rock, che dopo il suo trattamento si reinventano è sicuramente “Screamadelica”, terzo album dei Primal Scream, del 1991, che vede proprio il buon Andy nel ruolo di co-produttore.

Su questo disco, giustamente considerato uno degli album più importanti della storia della musica britannica (e non solo), oltre che una delle vette sonore del suo decennio, sia come resa musicale, sia come importanza culturale, è stato scritto di tutto. Credo basti leggere la ri-recensione che ne fa Pitchfork per capirne la rilevanza. Nel dubbio, se non lo avete ancora ascoltato, fatelo. Ora. 

Su “Screamadelica” potrei aggredirvi con un post di un’ottantina di cartelle che non ho mai avuto il coraggio di pubblicare, ma preferisco parlare del singolo che ha lanciato l’album (con una rincorsa di quasi un anno) e che è un manifesto perfetto del “trattamento-Weatherall”.

Prima di Screamadelica i Primal Scream erano un piacevole gruppo indie rock scozzese, fondato da un ex roadie e poi batterista dei Jesus & Mary Chain. Suonavano innegabilmente rock, con qualche tiepida venatura soul, ma senza particolari sussulti. 
Dopo aver incontrato Andrew Weatherall a un rave e avergli passato i master di un pezzo estratto dal loro secondo album, “I’m Losing More Than I’ll Ever Have”, chiedendogli di remixarlo (scena già vista per decine di altri gruppi), sono successe due cose. 

La prima è che Weatherall si è presentato con un remix talmente bello, talmente “altro” rispetto al materiale di partenza da meritare di essere trattato come un pezzo nuovo, con tanto di titolo esclusivo. 

La seconda è che ai Primal Scream si è aperto il chakra del groove e hanno letteralmente cambiato identità sonora e allargato i propri orizzonti. 

Quel remix che è diventato canzone si intitola “Loaded” ed è probabile che la conosciate bene, perché è uno dei pochi remix al mondo da potersi pregiare del pesissimo titolo di “pietra miliare”. 

Il lavoro di Weatherall su “Loaded” è pura decostruzione artistica: prende solo la seconda parte del brano originale, la rallenta, rimuove il cantato, aggiunge una linea melodica di archi e fiati vagamente latineggiante e chiude il tutto con un loop di batteria elettronica campionato da un remix bootleg (tra l’altro fatto in Italia) di “What I Am” di Edie Brickell & The New Bohemians. E in ultimo dà contesto (oltre che il titolo) al pezzo, sovrapponendogli spezzoni di un discorso tratto da un filmaccio non esattamente progressista di Roger Corman con Peter Fonda del 1966, con protagonista una banda di biker. 

Il risultato è splendido: tecnicamente non è rock, anche se ci sono chitarra e piano che ricordano i migliori Stones, è troppo lento per essere dance nonostante abbia un beat elettronico e campionamenti, in certe fasi suona vagamente mariachi (mariachi???) e ha pure un coro dalle voci femminili soulful che ripete ritmicamente “I don’t wanna lose your love”. Sulla carta, un pezzo così apparentemente disfunzionale non dovrebbe avere senso. Nella realtà è un classico che resterà nei decenni. Ed è anche, chi se ne frega, il mio pezzo preferito nella vita. 

Curiosamente, il modo migliore per apprezzare il genio che c’è dietro a Loaded è ascoltare il remix che ne ha fatto Terry Farley (quindi dal compare di Weatherall), che è una specie di percorso che parte dal finale di “I’m Losing More Than I’ll Ever Have” ed evolve fino a “Loaded” vera e propria. Sono 6 minuti spesi benissimo. 

Ecco, Screamadelica è un intero album nel solco di Loaded: il rock dei Primal Scream si fa più soul, i brani si dilatano, talvolta fino a diventare suite psichedeliche impazzite o anthem dane pronti a riempire le piste e i testi alternano materialismo rock e spiritualità positiva da seconda Summer Of Love. 


FAMOLO STRANO, DAI SABRES OF PARADISE AI TWO LONE SWORDSMEN, FINO A OGGI

Può sembrare incredibile, ma dopo anni di “saccheggi sonori”, di remix e di produzioni per conto terzi (che nel corso degli anni passano dal traghettare i gruppi indie verso l’elettronica al remixare direttamente altri artisti che fanno elettronica e dance), quando Andrew Weatherall si cimenta con un album proprio spiazza tutti. 

Forma, infatti, con Jagz Kooner e Gary Burns (e poi Keith Tenniswood), i Sabres Of Paradise. E con questi produce tre album in cui fa tutt’altro rispetto a quanto suonato prima. I pezzi ballabili si contano sulle dita di una mano, in compenso la musica spazia dal dub più radicale a un sound più cinematografico, vagamente inquietante e sempre al 100% elettronico. 
Riascoltato oggi, il secondo album dei Sabres of Paradise, Haunted Dancehall, fin dal titolo evoca più immaginari da film horror che vibrazioni dance. L’enfasi è su “Haunted”, quindi. 

Nel mezzo della produzione dei Sabres Of Paradise spicca Smokebelch II (Beatless), che per anni è stato uno dei pezzi “chiudi-pista” più diffusi: un pezzo senza batteria, con un sound preso bene e unico incategorizzabile. 
Quando suonava nei locali, nel 99% dei casi significava che le danze erano finite, si accendevano le luci e si poteva tornare a casa o cercare un “after”.

All’afterhour probabilmente avrebbero suonato altri pezzi di Weatherall, magari di un altro suo progetto che è rimasto nella storia della musica elettronica e che incideva per la Warp Records (la stessa di Aphex Twin, per capirci): i Two Lone Swordmen. 
Il loro suono, inizialmentem era più elettronico, con pezzi tendenti all’house e alla techno più creative ma sempre con un fondo riflessivo e mai mai mai mai banale. Curiosamente, i loro brani, sebbene mai accomodanti o pop, sono stati usati tantissimo in pubblicità, forse perché avevano sempre un piacevole vibe che sapeva di futuro. 
Col tempo (il progetto è durato più di 10 anni, dal 1996 al 2007), il loro suono si è allontanato più volte dall’elettronica da club per avventurarsi qua e là, senza confini di genere, dal dub al suono alla DFA fino al post punk “rumoroso” vagamente alla “Metal Box” dei PiL.

Nel corso degli anni, Weatherall ha continuato a produrre musica, usando decine di nomi diversi, avviando band, progetti, collaborazioni a non finire. Stare dietro il suo eclettismo è difficile perfino per i suoi fan più ostinati. Il suo ultimo album è del 2017 si intitola “Qualia” ed è uscito, per motivi noti solo a lui, per un’etichetta svedese che stampa la sua musica solo su vinile (e grazie al cielo anche in digitale, ma non sperate in un CD), ma nel mentre ha fondato una manciata di label, ha curato, in tempi non sospetti, uno dei podcast musicali migliori di sempre e ha continuato a fare dj set in giro per mezzo mondo, Italia inclusa.


IL DJ COME COSTRUTTORE DI SENSO – ANDREW WEATHERALL IN CONSOLLE

Può sembrare incredibile, ma la vera grandezza di Andy Weatherall si esprime nei suoi dj-set, più ancora che nella sua musica e nei suoi remix.

Se vi è capitato di partecipare a una sua serata, è probabile che ve la ricordiate tuttora: è quella sera in cui avete consumato lo smartphone a furia di usare Shazam, in cui vi siete detti almeno 100  volte “questa dov’è già che l’ho sentita?” e altrettante “questa non l’ho mai sentita”. 

Quando saliva in consolle il suo eclettismo esplodeva in una selection che non teneva conto di generi, tempo, mode, etichette. Weatherall suonava tutto quello che aveva il potenziale per far ballare la gente. E lo faceva in un modo unico, suonando per il suo pubblico gemme nascoste riscoperte grazie alla sua cultura musicale infinita o, più semplicemente, suonando il pezzo giusto (magari famoso, ma mai scontato) al momento giusto.

Tutto funzionava alla perfezione: scatenatevi online e troverete centinaia di registrazioni di suoi dj-set, di suoi podcast, di sue playlist. In tutti i suoi mix emerge chiara una visione artistica di fondo, che ha capisaldi precisi.

Il primo è che non esiste la musica da ballo come genere codificato esclusivo. Esiste musica che può essere usata per far ballare la gente e se ne trova in quasi tutti i generi e in quasi tutte le epoche. 

Il secondo è che ciò che conta di più in un dj-set, come esperienza, è lo scenario. Non solo lo scenario artistico, ma anche lo scenario in cui il dj suona (il locale, il quartiere, la città, lo Stato), lo scenario economico sociale (è diverso un dj-set in un locale a pagamento di un quartiere in piena gentrification rispetto a uno gratuito in periferia?), il contesto politico e perfino quello organizzativo (siamo qui per rovinarci di acidi e birra o è una serata per intenditori? O è qualcosa nel mezzo, tra le infinite sfumature?)

Il terzo è che, se sa analizzare e comprendere lo scenario, se sa contestualizzare quello che fa, il dj può suonare di tutto e renderlo interessante per il pubblico, perché tutto contribuisce alla creazione di senso.
È il principio, estremizzato, del readymade: un orinatoio è un orinatoio. Un orinatoio con un nome creativo: “Fontana”, che ne setta il contesto, è un’opera d’arte. Duchamp, mancato dj, lo aveva capito benissimo.


L’ultimo caposaldo è un giudizio artistico: tutta l’arte, quando nasce, è contemporanea. Vale anche per la musica. Ecco perché nel mondo di Weatherall la distinzione tra passato e presente, quando si tratta di consumare musica, ha poco senso.

Un suo dj set ti arricchiva, ti dava nuovi titoli da scoprire, vecchi da ri-contestualizzare, stimoli sonori a non finire, madeleine musicali e al tempo stesso visioni di futuri prossimi. E nel mentre non smettevi di ballare e divertirti. 
Sono pochissimi i dj che riescono a costruire un vero e proprio discorso musicale e culturale e al contempo farti divertire e tra questi Andrew Weatherall è stato uno dei più grandi, dei più eclettici e dei più creativi, senza mai cedere al manierismo.

La cifra stilistica di Weatherall è proprio la sua fame totale di musica: una mente che, per ragioni sociali e anagrafiche, viene dal tardo punk e ne ritrova parte della cultura nei rave dei tardi anni Ottanta, inizio anni Novanta. Nel suo caso è un fenomeno esplicito, al punto da citare i Clash come gruppo ultra-influente per un’intera generazione di dj e produttori dell’elettronica britannica. Non è l’unico (Orbital e Massive Attack, giusto per citare altri due colossi, hanno solide radici, campionamenti e perfino un po’ di immaginario visivo che deve molto al punk più tardo, quello che iniziava ad andare oltre alle chitarre distorte e a esplorare tutti i suoni “altri”), ma è tra i primi e rimane fino alla fine uno degli ultimi irriducibili che non fanno musica compromissoria, inscatolata in un genere, creata ad arte per compiacere un mercato specifico. 

Il suo non è nemmeno eclettismo di maniera: è davvero un curioso che si diverte a creare, saltabeccando qua e là tra i generi, gli stimoli, le realtà. Certo, fa musica elettronica, ma sfugge ai generi. Nei suoi pezzi cita film, serie tv, discorsi politici, campiona di tutto, dal rock all’ambient più radicale, suona drittoni da impasticcati e ballate eteree da chill-out, a volte ti porta in una mossa dalla Jamaica più pura del dub al centro del tuo stesso cervello con un pezzo totalmente mentale.


SUPERSTAR DJ? NO GRAZIE

Aveva tutte le carte in regola per essere il più grande, il più credibile e il più prolifico dei superstar-dj, Andrew Weatherall. Ha scelto, invece, di non esserlo, preferendo le sponde di un mixer, che fosse in studio o in consolle, alla ribalta mediatica. 

In un mondo in cui abbondano gli ego e le brutte persone e in cui molte carriere si sono costruite più sull’immagine che sulla sostanza, Weatherall era una brava persona totalmente immune al divismo, un regular guy il cui talento multiforme era secondo solo alle sue doti umane. Insomma, era uno che sapeva ridere, che sapeva relazionarsi col prossimo, che incarnava pienamente lo spirito amichevole, aperto e down-to-earth dell’epoca dei rave. 
Personalmente le volte che l’ho visto in consolle ho notato quanto fosse “presente” durante i suoi set, quanto guardasse la pista, cercando di leggerla, di interagire, di “capire” il pubblico. 

Fare il dj alla Weatherall è un atto sociale, non è una performance pre-impostata: è un discorso che si fa per e co gli altri e che in tempo reale si adatta a un pubblico, alle sue reazioni, al suo mood, al suo linguaggio verbale e non verbale. Non è cosa da tutti.

Molti dj più sono famosi e più ti impongono la loro scaletta, tanto loro sono le star e tu in pista ti adegui. Con Andy Weatherall non era così: senza perdere un milligrammo del proprio peso autoriale, quando mixava in consolle ti faceva capire che lui era lì per te, per farti divertire, pensare, vagare con la mente. 

Weatherall non si è mai considerato un professionista della musica, semmai un hobbista con interessi e curiosità di varia natura. Ecco perché non gli è mai interessata molto la parte business del suo mestiere, ma più quella creativa, artistica e – se si può dire ancora sembrando seri, nel 2020 – pura. 


La forza del suo genio e la sua capacità di restare rilevante, influente e rispettato per 30 anni di carriera nascono da una semplice considerazione: gli esseri umani, in ogni epoca, condizione sociale, culturale o storica, avranno sempre piacere e voglia di ballare. 

Non è una banalità: è un assunto base dell’antropologia culturale, che considera il ballo (e anche gli stati alterati a esso collegati, aggiungerebbe Weatherall) un “universale culturale”, cioè un elemento presente in tutti i tipi di società, indipendentemente dal loro grado di evoluzione e dalla loro posizione geografica. E da sempre la danza è uno dei modi più piacevoli con cui, liberando il nostro corpo, liberiamo la mente, ci eleviamo.

“La necessità di raggiungere la trascendenza è parte della natura umana da migliaia di anni”, ha detto in un’intervista, “se riesco ad aiutare la gente a raggiungerla, ho fatto un buon lavoro”.

Nel mio caso – e credo di non essere solo – ci è riuscito. E a modo suo ha cambiato in meglio la mia vita. E continuerà a farlo per anni.

1 comment

  1. Mi ci ritrovo in pieno nella tua narrazione. Il problema è cosa sarà senza di lui?

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