Visto che i tanti parlano (in questo caso bene, trattandosi di quel vecchio cuore granata di Carlo Bordone) del ventennale del brit-pop, non c’è modo migliore di celebrarlo che parlare d’altro, evitando di ricordare quell’epoca in cui ci si emozionava perché ci era arrivato in mail order il 12″ del singolo di “Some Might Say“, d’estate si girava mezza Riccione per cercare giacca della tuta Fila identica a quella che indossava Damon Albarn nel video di “Boys and Girls” (per poi scoprire che dopo 5 minuti che la si indossava si rischiava la morte per iperidrosi toracica) e durante l’anno erano obbligatorie varie tappe a Londra a ravanare tra i dischi in Berwick Street.

Quindi piazziamo due decenni e un oceano tra noi e i ricordi brit e parliamo della musica che si ascolta alle Bahamas, perché a modo suo è interessante e perché ero in viaggio da quelle parti. Enfasi su “a modo suo”.

Il fatto è questo: la musica tradizionale bahamiana, apprezzata da tutti su quelle isole pigre e felici, è una specie di calypso iper-accelerato, elementare e cantato in inglese. Il problema sono i testi.
Dopo un paio di giorni in cui abbiamo voluto illuderci di essere noi a non capire bene l’inglese caraibico (parlano tutti come Desmond di Lost!), ci siamo dovuti arrendere: il top della musica bahamiana, ascoltato da tutti e suonato ovunque, è Leone di Lernia*.
Ok, non proprio lui, ma il suo omologo locale.

Mentre sei lì che bevi una birra bahamiana e aspetti – un paio d’ore, ché sull’isola sono lenti – il tuo piatto di conch fritto o qualcos’altro di fritto (sono pure sempre un paese del Commonwealth: dio strabenedica gli inglesi!), la radio solitamente pompa a volume 11 canzoni che sembrano filastrocche per bambini sotto speed. E tutte – ma tutte tutte – parlano di sesso, con la finezza dialettica di Alvaro Vitali. Peraltro in un paese dove la donna media supera il quintale di peso.

Mi spiego: il brano più noto dell’artista più famoso delle Bahamas, Ronnie Butler (una vera e propria istituzione, per i locali), è un medley tra due canzoni.
La prima, “Drive It Home”, è la storia di un tizio che si accoppia con una donna apparentemente insaziabile e conta le volte di fila che la possiede. Finalmente, all’undicesimo round – dopo un momento thriller al decimo, in cui ha un lieve ehm calo di performance – la signora capisce “devi per forza essere un bahamiano”.
Il pezzo enumera tutte le performance in ordine sequenziale e si ferma alla dodicesima. E temo che alle Bahamas lo usino come canzoncina per insegnare i numeri ai bambini, visto che la sanno tutti a memoria.

La seconda, mixata perfettamente con la prima, si intitola “Who Put The Pepper In The Vaseline” ed è la storia di due gay morosi che, oltre a non pagare l’affitto, non danno una lira alla cameriera. E questa per vendetta gli mette il pepe nella vaselina. Disperati, i due amanti chiamano la polizia che, durante un’investigazione notturna, verrà coinvolta nel ménage con tanto di poliziotto con “pepper in his mouth”.
Il brano, in pieno stile omofobo importato dalla vicina Jamaica, è tutto un fiorire di falsetti quando parlano i gay, espressioni tipo “sissy” e doppi sensi ben oltre l’esplicito.
Tanto per non lasciare dubbi, l’intero medley ha il titolo “Bungy On Fire”, che vuol dire “didietro infuocato”.

httpv://www.youtube.com/watch?v=bBeR8ony6Xg

In un paio d’ore, quindi, è normalissimo ascoltare canzoni su un povero giardiniere bahamiano costretto a emigrare in Jamaica e bagnare col suo lungo idrante le aiuole alle facoltose signore ivi presenti (con sorpresa finale in cui il marito di una signora chiede anche lui un po’ di innaffiamento allo sventurato emigrante bahamiano), pezzi dedicati al conch (che è un molluscone che si mangia in buona parte dei caraibi, prelevato da una conchiglia enorme) del genere “beccati sta conchiglia” e altre lepidezze da ritrovo di ex commilitoni al quinto giro di grappa. Curioso non abbiano ancora scoperto gli assoli ruttati, ma conto su un’evoluzione al più presto in quel senso.

In compenso la radio bahamiana dà vibrazioni meno pecorecce. Anzi, è stato un piacere scorrazzare su e giù per l’isola in cui eravamo spiaggiati ascoltando – rigorosamente in AM – Radio Bahamas, perché la sua programmazione musicale è fatta in gran parte da vecchi brani ska, rocksteady, calypso e reggae soulful e ben pochi suoni bahamiani. Niente di più recente del 1980 e tutto probabilmente su vinile, a giudicare dal fruscio. Un paradiso, per chi ama Desmond Dekker, Stanley Beckford, Horace Andy e simili. Sembrava Radio Nova di notte, senza gli stacchetti in francese.

Il profluvio di vibrazioni positive e vintage era interrotto periodicamente dalla speaker locale che, a seconda dei casi, raccontava una barzelletta, leggeva i necrologi isola per isola o lanciava gli allerta meteo, ché lì è stagione di uragani.
Quindi tu sei lì che ascolti un pezzo anni Sessanta di Alton Ellis e d’improvviso la canzone viene interrotta a metà e parte un messaggio pre-registrato del tipo “Osservatorio climatico delle Bahamas: la tempesta tropicale Cristobal è presente in zona e sta per arrivare sulle isole X, Y, Z. Tutti i natanti in zona devono rientrare in porto, le persone devono allontanarsi dal mare e dalle situazioni di pericolo e dalle fonti di elettricità. Se avete bisogno di rifugio, non riparatevi in acqua o sotto gli alberi, ma raggiungete il rifugio più vicino. I rifugi aperti oggi sono, per l’isola X la chiesa Taldeitali, la chiesa di Tiziocaio e la chiesa di Sempronio”.

E tu, nel mentre, sei lì che un po’ speri che riparta il pezzo di Alton Ellis e soprattutto che la speaker non nomini la tua isola, anche perché in caso di tempesta tropicale ti ritroveresti a fare il figo coi bahamiani “E tu queste due gocce le chiami tempesta tropicale?  A’ regazzì, qui ci siamo fatti l’estate 2014 in Italia, noi sì che sappiamo cos’è la vera pioggia”.

 

PS. Ci sarebbero pagine e pagine da scrivere su The Barefoot Man, uomo dalle mille vite, nato bavarese, naturalizzato americano e ora caso raro di intrattenitore-musicista nomade-caraibico bianco, noto per suonare classici bahamiani (tra cui “Who Put The Pepper In The Vaseline”), sue composizioni sospese tra l’humour e il demenziale, canzonacce piene di doppi sensi e, quando gli gira, tirate politiche sugli Stati Uniti, Bush, Cheney e Clinton e pezzi più seri. Il tutto condito con un sito interamente in comic-sans (in cui la home si chiama “cabana”), copertine di album simil-Fausto Papetti o decorate con clip-art di Word come il Post Sotto L’albero e, pare, un seguito di fan agguerritissimi in mezzo mondo.
In effetti non è possibile non apprezzare il suo mood da europeo convertito in isolano preso bene, che strimpella una chitarra sotto una palma in riva al mare, con al suo fianco un bicchierone di Bahama Mama (che è un cocktail che non ha una ricetta precisa: basta che ci siano 4 tipi di alcolici diversi e della roba dolce e ci si aggiusta) e discetta con la stessa serietà di tanga, di Viagra e di politica militare. Altro che tristi tropici: è uno che non ha nessun timore a fare una cover di Sloop John B, cambiarle il testo e intitolarla “Gay Cruise Ship Song“.

 

 

* Ripensandoci, sono stato ingiusto con Leone di Lernia: per quanto non brilli in finezza, non è mai stato così tanto volgare. Diciamo che il modello nostrano per la musica bahamiana potrebbe essere Gianni Drudi.

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