Mi sono preso una pausa di un mese dai social network. Per 30 giorni, anzi in verità per qualche giorno in più, ho vissuto più o meno come se Facebook e Twitter non esistessero, lasciando i profili a prendere polvere, inesorabilmente aggiornati per l’ultima volta il 30 marzo.
Le ragioni di un’azione di questo genere sono, nel mio caso, semplici e non drammatiche: ogni tanto fa bene fare una piccola dieta detox dalla Grande Conversazione, soprattutto se la chiacchiera condivisa riguarda in modo quasi esclusivo temi logoranti come la politica. Forse è un limite mio, ma le campagne elettorali finiscono sempre per consumarmi, figuriamoci quelle a cui fa seguito il più grande momento di crisi della storia della sinistra italiana, vissuto collettivamente e in tempo reale, come Twitter comanda.
E poi volevo vedere che effetto fa – su di me, sugli altri – il digiuno improvviso dopo anni di lauti pasti social quotidiani.
La verità è che non succede niente di rilevante: registro con un po’ di dispiacere il fatto che la quotidianità non risente in modo rilevante dell’assenza dei social media.
Forse ti senti un po’ meno informato di prima, ma alla fine ti accorgi che non lo sei, o lo sei su cose non molto importanti, come la cronaca politica spicciola.
In compenso hai un po’ più di tempo, ma non così tanto quanto preventivavi. La verità è che hai più attenzione e continuità nel compiere molte azioni (banalmente: lavorare) e finisci per fare più in fretta. Quindi sì, hai più tempo libero, ma di sponda.
Finisce che ti trovi nella condizione degli ex fumatori freschi di rinuncia al vizio: non è un problema dire di no alla sigaretta, ma è molto più dura gestire i tempi morti, quelli che prima passavi con l’iPhone in mano.
La buona notizia, nonostante non siano cambiate molte cose, è che dopo un mese di pausa mi sono accorto che la pratica dei social network era diventata un’abitudine più che una volontà praticata scientemente. Fare un’astinenza lunga aiuta a osservare il tutto in prospettiva.
In compenso intorno a te succedono cose strane. Da qualche parte dobbiamo aver condiviso il pensiero per cui se uno si assenta dall’aggiornare i propri profili sui social network per più di un certo numero di giorni, sicuramente ha dei problemi, sta male, ha casini familiari, è ammalato, impazzito, morto. Oppure è andato in vacanza senza avvertire nessuno, ma l’ipotesi non è contemplata.
Quindi la gente, con ammirevole affabilità, ti scrive e ti chiede che succede. Nel mio caso il primo “tutto ok?” è arrivato dopo 48 ore e gli altri a seguire (un paio sono perle da antologia). Ci tengo a dire che ho risposto a tutti e ringrazio tutti.
Cosa succede, adesso? Succede, nel mio caso, che ti ridoti di una vita su social network, ma con un po’ più di consapevolezza (diceva il vate – “la vita non è qui”), un approccio meno meccanico e scontato e un po’ più di tentata leggerezza calviniana nelle parole.
Resta da fare il conto di cosa ci si perde in un mese da sordomuto sui social. L’elenco dei post e dei twit mai nati è lì, sotto forma di elenco puntato mentale lunghissimo, su cui spicca qualche pezzo in bold.
C’è qualcosa che ti sarebbe tanto piaciuto scrivere ma che aveva senso a caldo, come quella riflessione su Enzo Jannacci e il fatto che il suo esegeta più credibile e sentito sia suo figlio. Mi sarebbe piaciuto dire che avere un figlio che diventa il migliore interprete del tuo pensiero, del tuo stile e della tua arte è qualcosa che dà senso a una vita e forse ti fa morire felice, soddisfatto. Mi sembra un buon lavoro, degno di una persona speciale, ecco.
Ci sono fiumi e fiumi di parole che è meglio che siano rimasti sotterranei: incassare una “vittoria” da Cassandra, vedendo confermate dal disastro del PD bersaniano le riflessioni politiche che da mesi gridavi ai quattro venti non è una consolazione. Avrei preferito aver torto.
Il silenzio imposto mi ha preservato dalla tentazione antipatica di bullarmi del mio “ve l’avevamo detto!” sulle macerie della sinistra italiana conseguenti alla Caporetto di Bersani e soci.
E no, aver fatto di tutto affinché questo non avvenisse non mi consola dalla tristezza che quello che è capitato in questi giorni sia avvenuto.
Ci sono prese di posizione più o meno vanitose, come se il profilo di quello che siamo fosse definito dal confine formato dalle parole condivise col prossimo. Quindi affrettarsi a dire che si è contro (ma tanto) questo governo PD-PDL, fare una battuta possibilmente non scontata sulla morte di Andreotti, indignarsi un po’ per le bruttezze quotidiane da cui sembra obbligatorio prendere le distanze.
E poi ci sono le cose piacevoli, divertenti, che avresti voluto condividere, raccontare, spiegare. Elio che fa un nuovo album con un singolo fighissimo che crocifigge una delle cose che più detesti al mondo. Oppure i Daft Punk che tornano con un album disco (sorprendendo giusto la gente che non sa chi era il babbo di Thomas Bangalter). E Pharoah Sanders dal vivo al Blue Note.
Non ci siamo persi niente di che, alla fine.
In compenso ora so che è vera la massima per cui un periodico e ragionevole digiuno non fa venire più fame: aiuta a controllarla.
Io a forza di commentare a destra e sinistra credo di essere diventato più dialettico, anche se talvolta scado anche io nella cretineria.
Per il resto, i social network e compagnia cantante, a parte il fatto che mi permettono di tenermi in contatto con persone lontane, sono per quel che un tempo erano la televisione. Né più, né meno.
Ovviamente qui sto parlando dei social network, non di internet in generale.
🙂
Sì’, volevo dire quello. E dire che nella misura in cui cerchiamo nei figli la continuità (nella somiglianza e anche nella diversità, ci mancherebbe), il passaggio Jannacci senior – Jannacci junior mi è sembrato molto riuscito.
Spetta, non intendevo in quel senso, non ci ho mangiato venti chili di cenere come dicono i sardi ma a pelle jr mi sta simpatico quanto il padre. Era rispetto al morire felice se tuo figlio diventa il migliore interprete del tuo stile, che non sono convinta, perché alla fine i figli sono una cosa diversa da te ed è bene che si facciano una loro strada originale, esprimendo se stessi e non te. Ma ripensandoci forse sono un po’ fissata io e tu volevi solo dire che è bella l’intesa che dimostrano, e hai ragione.
in verità mi piacerebbe parlarne, della questione di Jannacci senior & junior. Ché magari junior è un pusillanime sfruttatore del talento paterno e non lo so. Visti così, libro incluso, mi sembravano affiatati, ma appunto: sembravano. Magari mi sbaglio.
Bello, davvero. Sul discorso in proposito al figlio di Jannacci non sono d’accordo, ma chi se ne frega 😉
Ecco, io per esempio non lo sapevo mica chi è il padre di T. Bangalter!